Il change management: crescere cambiando

 

“Non è la specie più forte o la più intelligente a sopravvivere, ma quella che si adatta meglio al cambiamento.” – Charles Darwin

Il cambiamento, tanto inevitabile quanto temuto, porta con sé incertezze e dubbi. Paragonandolo a una grande onda, si possono dividere le persone in due grandi categorie: gli annegati, ovvero coloro che si fanno sorprendere da essa, subendone le indomabili conseguenze in modo passivo; e i surfisti, che vedono l’onda arrivare e si preparano per sfruttarla a loro vantaggio, si adattano a essa e infine la cavalcano con controllo ed energia.

Col termine “cambiamento” si fa riferimento a una transizione che porta da un punto A (lo stato attuale), a un punto B (lo stato finale). Esso permea l’esistenza umana e la condiziona in tutti i contesti di vita. Per questo motivo, il cambiamento è stato oggetto di analisi di molti studiosi appartenenti a diverse discipline, tra queste, la psicologia. Essa ha infatti svolto un ruolo chiave nel delineare le caratteristiche del cambiamento, i suoi significati, le sue ripercussioni nell’attività mentale e comportamentale delle persone, e le modalità di gestione di esso. Uno dei contesti di applicazione sul quale si sta investendo maggiormente è quello legato al mondo delle organizzazioni, soprattutto a supporto della Digital Transformation, il suo presentarsi come sempre più dinamico e mutevole infatti, ha determinato l’esigenza di sviluppare nuovi strumenti per padroneggiare al meglio la forza del cambiamento al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati. 

Dalla seconda metà degli anni Novanta, si assiste a un importante sviluppo tecnologico, un aumento e miglioramento dei mezzi di trasporto e di comunicazione, una notevole integrazione economica internazionale, la maturazione dei mercati in paesi sviluppati, l’aumento di esportatori aggressivi e di deregolamentazione, e l’adesione di un numero sempre maggiore di paesi al sistema capitalistico e più privatizzazione. A tutto ciò è dovuto il fenomeno della globalizzazione, che, se da una parte rende tutto più rischioso a causa della maggior competitività e velocità di mercato, dall’altra prevede un ampliamento delle possibilità grazie all’ampliamento dei mercati e alla riduzione di barriere. È chiaro come, per sopravvivere e rimanere competitive, siano dovute mutare anche le aziende: la cultura organizzativa dell’azienda del XXI secolo, come suggerisce John Kotter in ‘Leading Change’ (2012), deve essere dinamica, orientata all’esterno, veloce nel prendere decisioni, dalla mentalità aperta, trasparente, tollerante al rischio e favorevole a cambiamenti, innovazione ed empowerment dei dipendenti. 

 

 

Sotto l’etichetta Change Management, rientrano dunque tutti quegli interventi strutturati che si occupano di scardinare lo status quo e raggiungerne uno nuovo. Uno dei più importanti e dei primi modelli di Change Management introdotti è quello di Lewin (1951), che descrive il cambiamento come un processo a tre stadi: il primo è detto di “scongelamento”, attraverso cui si superano abitudini e convinzioni dettate dall’inerzia; il secondo comprende l’introduzione e la messa in atto dei cambiamenti, e coincide con il manifestarsi di naturali resistenze innescate dai meccanismi di difesa; il terzo, di “ricongelamento”, permette la cristallizzazione e il consolidamento delle nuove abitudini e riporta gli individui a uno stato di confidenza. 

Rendere le persone consapevoli dell’urgenza di cambiare, fornire loro una vision co-costruita e chiara da seguire, motivarle facendo leva su bisogni intrinseci, essere coerenti e costanti nei comportamenti adottati, e mantenere un equilibrio tra obiettivi a breve termine (in grado di giustificare gli sforzi richiesti nel presente) e obiettivi a lungo termine, sono solo alcuni tra i principali elementi correlati con processi trasformativi di successo nelle organizzazioni. 

La propensione al cambiamento, il saper riconoscerlo, accettarlo e sfruttarlo a proprio vantaggio, diventano dunque soft skills centrali nel XXI secolo, sulle quali è giusto investire sin dall’infanzia. Esse, al contrario di quanto molti pensano, rappresentano competenze che possono essere acquisite e allenate. Le realtà competenti in materia di istruzione e formative hanno il dovere di aggiornarsi e proporre percorsi di studio che forniscano strumenti conoscitivi e pratici in linea con le esigenze del presente e dell’immediato futuro. Aiutare i giovani, e anche i “meno giovani”, ad acquisire un mindset propositivo e sensibile al cambiamento deve rappresentare una priorità per una società che non vuole rimanere ferma, in cui il “si è sempre fatto così, quindi va bene” rappresenta il mantra all’ordine del giorno.

Infine, non va dimenticato l’elemento che spesso viene maggiormente trascurato quando si parla di Change Management: noi stessi. “Non ci si bagna mai due volte nello stesso fiume”, diceva Eraclito. Questa frase viene utilizzata spesso, giustamente, per far riflettere sull’incessante, continuo e inarrestabile cambiamento del fiume, metafora del mondo che ci circonda. Tuttavia, è importante tenere sempre a mente che a essere in continuo mutamento, per fortuna, siamo anche noi. La dinamicità del nostro sistema valoriale, delle nostre ambizioni, passioni, motivazioni, capacità e conoscenze è un dato di fatto. Se oggi ci immergiamo in un fiume dunque, non sarà la stessa cosa rispetto a immergersi in esso domani, perché cambierà il fiume e perché cambieremo anche noi.

 

Marco Mengo, Volontario TEDxPadova